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Schubert mai dimenticato
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SCHUBERT QUARTETTO PER ARCHI N. 15 in SOL MAGGIORE D887
GABRIELI QUARTET:
Kenneth Sillito Violino I
Brendan O’Reilly Violino II
Ian Jewel Viola
Keith Harvey Violoncello
CD DOUBLE DECCA
(DECCA)
Schubert Masterworks III
452 396-2
CD 1
Sembra che nell’epoca delle esecuzioni filologiche, delle riscoperte di autori dimenticati e di meticolosi studi musicologici ci si debba ancora stupire che certi capolavori che dovrebbero essere universalmente riconosciuti tali e considerati come patrimonio musicale siano inspiegabilmente ancora quasi del tutto sconosciuti e poco studiati.
Caso emblematico in questo senso è l’ultimo quartetto schubertiano in sol maggiore che potrebbe essere uno dei simboli di quei capolavori che la storia della musica non ne ha riconosciuto la grandezza. Questo quartetto potrebbe ben assurgere al pari del successivo Quintetto in Do Maggiore D956 a pietra miliare della musica cameristica di ogni tempo.
Composto in soli dieci giorni nel giugno del 1826, ma presumibilmente su appunti precedenti, appartiene quindi all’estrema stagione creativa schubertiana ed è praticamente contemporaneo agli ultimi monumenti di Beethoven nello stesso genere. Pur nell’apparente maggior legame alla tradizione (presenta ad esempio, diversamente dalle coeve opere beethoveniane, i canonici quattro tempi di cui rispetta anche la disposizione) possiede aspetti altrettanto geniali e rappresenta il culmine di quell’originalissimo e tormentato percorso strumentale sperimentale, comune anche ai due quartetti precedenti, che lo pone come coronamento di una triade di lavori di estrema originalità e audacia. Si rivela infatti una maestria compositiva degna di Beethoven che certo sfuggiva ai contemporanei e, infatti, come per il quartetto precedente, la prima parziale esecuzione del 26 marzo 1828 al Musikverein di Vienna non riscosse il successo sperato dal compositore per non parlare di una possibile richiesta da parte degli editori i cui rapporti erano ormai compromessi.
Il quartetto fu dunque presto dimenticato per poi venire riscoperto postumo e pubblicato molti anni dopo da Diabelli, addirittura nel 1851 come op. 161.
Questa d’altronde era la triste sorte per quasi tutte le composizioni di Schubert, soprattutto per gli ultimi sfuggenti capolavori a causa della loro complessità e novità che disorientavano pubblico e critica.
Ciononostante il quartetto per archi in sol maggiore n. 15 D887 è senz’altro con il precedente in Re minore D810 “La Morte e la Fanciulla” uno dei più belli della letteratura del genere, un vertice dell’arte del quartetto, nonché uno dei gioielli di Schubert. Complesso, intrigante, è una creazione straordinaria ed affascinante, lontanissima dai lavori giovanili: non più saggio scolastico o composizione salottiera destinata all’esecuzione nel ristretto ambito domestico né meno che mai lavoro alla moda più o meno “Biedermeier”, ma opera ambiziosa, di ampio respiro, di solidissima costruzione e di perfetto equilibrio, incredibilmente moderna, sempre ricca di sorprese e per alcuni aspetti addirittura superiore alla stesso quartetto de “La Morte e la Fanciulla” che però resta tuttora ben più celebre (e celebrato) e viene quasi sempre preferito sia in campo concertistico che discografico.
Al Gabrieli Quartet va quindi il merito di aver dato vita a questo capolavoro ingiustamente ancora poco conosciuto e poco frequentato dalla discografia, ma anche e soprattutto di averne contemporaneamente realizzato una magistrale esecuzione, precisa e intensa, una delle migliori di quest’opera, frutto di un’interpretazione ispirata e sempre accurata sotto tutti i punti di vista.
L’ensemble inglese si rivela infatti estremamente affiatato oltre che impeccabile sul piano tecnico, come richiede la totale precisione di questo genere, risultando così molto convincente sia sotto il profilo artistico sia sotto quello tecnico. Tuttavia soprattutto due caratteristiche spiccano: la bellezza del suono e la coinvolgente e vitale interpretazione. Molti infatti i pregi artistici di questa incisione, come l’accuratezza nel fraseggio e nelle sfumature, l’attenzione per il dettaglio, la sensibilità di una lettura aderente allo spirito del testo, la precisa intonazione, ma è proprio la duttilità e la varietà timbrica, il suono corposo, coinvolgente e ricco di sfumature ma nello stesso tempo limpido e accurato che maggiormente colpisce l’ascoltatore.
È indubbio infatti che in questo quartetto Schubert intraprende una ricerca timbrica del suono oltre che formale/strutturale che attraverso soluzioni tecniche innovative e poco impiegate (uso larghissimo di tremoli e ribattuti) e l’intenso sfruttamento delle tessiture strumentali esplora sonorità e dinamiche nuove creando un quadro di grande suggestione ed espressività, timbricamente ricchissimo, di sicura presa psicologica sull’ascoltatore e dando al classico quartetto da camera una veste sinfonica e una pienezza quasi orchestrale che indica come quest’opera sia destinata al grande pubblico.
Il Gabrieli Quartet giustamente dà una lettura della partitura in questa chiave più “concertistica” che “cameristica” con una straordinaria corposità e pienezza di suono, soprattutto nei passaggi con forte volume sonoro, adatta alla scrittura “sinfonica” senza tuttavia trascurare la qualità timbrica dell’insieme.
Assolutamente da rilevare a questo proposito è infatti come la potenza e compattezza del suono, che proietta in una dimensione orchestrale il complesso cameristico per eccellenza, si abbini ad un bellissimo colore strumentale di tutti gli archi conservando sempre una grande accuratezza in tutti i registri e dinamiche e non risultando mai sgradevole né nei sovracuti (soprattutto del primo violino) né nei fortissimi, negli sforzati o nei fulminei cambi di dinamica e nemmeno esitante o incerto anche nelle sonorità più piane.
A prova di questo basti ascoltare per esempio nel primo tempo le prime magiche 20 battute dell’esposizione o di quale tensione emotiva siano le variazioni della melodia sincopata del secondo tema (2.55-3.56-11.21) o i passaggi dello sviluppo in 6.41 e 7.22, si noterà inoltre l’incisività e la precisione degli attacchi e come la forte sonorità non intacchi l’intreccio contrappuntistico di alcuni passaggi che vengono resi con chiarezza ed eseguiti con nitidezza e precisione grazie alla trasparenza con la quale si avvertono tutte le voci, non a scapito però della potente sonorità della veste “sinfonica”. Questa interpretazione vibrante è sotto questo profilo un’incisione di riferimento, probabilmente perfino superiore a quella pur non trascurabile del quartetto Alban Berg per la Emi. Risulta più incisiva ed appassionante sul piano espressivo, mentre quella dell’Alban Berg sembra prediligere l’aspetto dell’opera più meditativo e “autunnale” di Opus ultimum che quello appassionato e romantico scelto dal Gabriel Quartet e, con un’agogica leggermente più ridotta e sonorità più contenute, risulta meno “sinfonica” e forse meno avvincente.
Il Gabrieli Quartet infatti sembra aver compreso a fondo gli intenti del compositore e si produce in una prova interpretativa carica di emozioni ed entusiasmante per sensibilità e raffinatezza come non si è riscontrato in altre, pur ammirevoli, incisioni. L’esecuzione intensa, ora energica e vigorosa ora leggera e di commossa dolcezza, ma sempre di forte impatto emozionale è sempre perfetta e controllata anche nei passaggi virtuosistici, indicando come in Schubert il virtuosismo non è mai fine a sé stesso ma sempre subordinato a una più alta esigenza espressiva. L’attenzione al dettaglio ci trasporta in ogni movimento in un quadro emotivo diverso seppur un comune sottile filo di inquietudine unisce tutti e quattro i tempi. Il Gabrieli Quartet raccoglie la sfida adattandosi di volta in volta a tutte le piccole sfumature timbriche e ai continui cambi di registro che questo pezzo richiede.
Come nel meraviglioso e vastissimo primo tempo, brano che folgora al primo ascolto, con momenti di pura bellezza e grande poesia, dove in una mirabile unione contenuto/forma, accoglie soluzioni tecniche nuove che creano un’atmosfera estremamente suggestiva con continui sottili giochi di chiaroscuri ed emozionanti passi musicali di enorme pathos ed originalità: tremoli, forti esplosioni sonore e sommessi mormorii, numerosi sforzati e palpitanti fremiti, accostamento di sonorità contrastanti e soprattutto l’evidente e continua oscillazione tra modo maggiore e minore, caratteristica propria di tutta l’opera fin dai primi due accordi iniziali.
Ne risulta dunque un quadro sonoro di forte intensità emotiva in un susseguirsi di sentimenti contrastanti nella tipica struggente atmosfera schubertiana oscillante tra sogno/ricordo e rappresentazione tragica della realtà idealmente raffigurata da passaggi drammatici, spesso addirittura quasi violenti e in questo senso presenta aspetti in comune con l’inquietante Quartettsatz D703 di poco precedente. Un brano in cui il continuo mutare di prospettiva e le incessanti digressioni creano un clima ambivalente e instabile, dove si rincorrono angoscia e malinconia, lirismo e intimità, utopia e razionalità, dolcezza e tragicità, sogno e speranza, luminosità e insondabili zone d’ombra, agitazione e delicatezza egregiamente resi vitali con una esecuzione che segue passo passo il persistente variare di stati d’animo che anima questo movimento grazie anche all’attenzione ai minimi dettagli della partitura che ne rende gli impercettibili accenti, pause, cambi di agonica e dinamica, mettendo in luce cioè gli aspetti più nascosti della partitura per rendere ogni più piccola piega psicologica e dando vita alle numerose luci e ombre di questa musica.
Questo vagare in zone inesplorate e sondare grandi profondità in un clima carico di commozione e di stridenti contrasti, ma contemporaneamente filtrato e avvolto in una superiore aura di contemplazione è proprio degli estremi capolavori che sfidano la simmetria classica, basti pensare alle ultime sonate per pianoforte, alla Winterreise, allo Schwanengesang, alla Fantasia in Fa minore D940.
Si manifestano infatti in questo lavoro tutte le caratteristiche dell’ultimo profetico Schubert: l’evidente dilatazione formale, la prolissità, l’amplificazione e la ripetitività, la personale concezione della forma sonata, la circolarità dei temi, l’esautorazione del rapporto tonica-dominante proprio del classicismo viennese con quello armonicamente più rilassato di tonica-mediante, le relazioni di terza, la continua alternanza e ambiguità tra modo maggiore e minore e, come nei quartetti di Beethoven, arditezze armoniche e di linguaggio, difficoltà tecniche, una più ampia ricerca contrappuntistica, estremi dinamici e alto grado di sperimentazione formale e tonale.
Qui è l’artista maturo che parla, conscio finalmente dei propri mezzi nel segno di una personalissima e sofferta ricerca stilistica ed estetica nella musica strumentale la cui grandezza è qui testimoniata.
Dalla misteriosa e romantica Sehnsucht del primo tempo ci si immerge nelle profondità metafisiche del secondo movimento di grande liricità, profondità espressiva, interessante costruzione formale, strutturato nella forma ABABA e nella tonalità di mi minore.
Si passa poi al semplice ma efficacissimo tema fortemente ritmico dello scherzo in si minore, con il suo slancio ritmico, i suoi suoni sovracuti e ribollire di suoni sotterranei e il forte dinamismo interrotto solo dal tipico contrastante trio schubertiano sottoforma di ländler, per finire col brillante ultimo tempo che, nonostante alcuni temi vagamente rossiniani e il passo di danza popolare in 6/8, sembra tuttavia avere inquietanti assonanze con la tarantella finale della Morte e della Fanciulla.
Sebbene infatti il lungo Allegro assai finale sottoforma di rondò-sonata non è altrettanto evidentemente una danse macabre, nel suo andamento sostanzialmente ottimistico non è però privo di alcune velature di inquietudine e reminiscenze dolorose dei movimenti precedenti sembrano incombere come nubi minacciose e turbare un’agognata serenità che neppure i momenti di leggerezza e vitalità d’ispirazione rossiniana sembra possano cancellare totalmente.
Una vena di nostalgia, di rimpianto, sembra scorrere sotterranea, sotto le parvenze di una disinvolta semplicità popolaresca ormai avvertita come parte integrante di un mondo irrimediabilmente perduto.
Un’opera dal carattere “premonitore” nella quale la retorica settecentesca cede il passo al romanticismo e che assieme ai lavori contemporanei apre la strada alla nuova era.
Per i collezionisti alla ricerca di una entusiasmante interpretazione quartettistica schubertiana, questa preziosa lettura del quartetto in sol maggiore edita dalla Decca si rivela senz’altro un ottimo acquisto grazie anche al prezzo veramente interessante e la presenza di un secondo compact disc con altre ottime incisioni degli ultimi capolavori cameristici per archi schubertiani. Unica, quasi impercettibile, carenza è forse la qualità non eccelsa della registrazione, non priva in alcuni momenti di lievi rumori di fondo, ma complessivamente un cd assolutamente da ascoltare.
Marco Beccari
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